“Un giocattolo come me”: bambole disabili dall’idea di tre mamme



“Un giocattolo come me”: bambole disabili dall’idea di tre mamme ultima modifica: 2015-05-27T15:46:17+00:00 da Camilla Montella
“Un giocattolo come me” (Toy Like Me) è il nome di una campagna ideata da tre mamme britanniche con figli disabili. Volevano dare ai loro figli dei giocattoli con cui potevano identificarsi, come fanno tutti gli altri bambini. Le prime bambole le hanno fatte da sole, poi hanno creato un gruppo Facebook che invitava i genitori di figli disabili a postare idee da realizzare e le case produttrici a crearli. Tutto è cominciato con Trilli con l'apparecchio acustico e poi sono arrivate altre bambole, pelouches, omini tipo Playmobil con diverse disabilità fisiche.

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Una delle mamme, anche lei disabile, racconta: "Quando ero piccola, non ho mai visto una bambola come me. Avevo due apparecchi acustici. Nel mondo delle bambole, era come se io non esistessi. Cosa diciamo ai sordi e ai bambini disabili? Che non ne vale la pena? Che sono invisibili nella società?".

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La casa produttrice di giocattoli britannica MakieLab ha contattato le tre mamme e ha cominciato a creare giocattoli con una stampante 3D, quindi sono stati in grado di rispondere alla domanda quasi istantaneamente. «Possiamo rispondere a un bisogno che non è soddisfatto dalle aziende di giocattoli tradizionali. E’ fantastico. Speriamo di far felici alcuni bambini e i loro genitori!», dice Matthew Wiggins del MakieLab.




Ora la campagna "Toy Like Me" è anche tra le petizioni di Charge.org


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1 Commeno to ““Un giocattolo come me”: bambole disabili dall’idea di tre mamme”

  1. Lorena Nicardi scrive:

    Ma a nessuno viene in mente che i bambini, disabili e non, devono essere liberi di “rappresentarsi” nei loro giochi e non di “essere rappresentati”??? Quando le bambole erano bambole, cioè bambini di cui prendersi cura “da adulti” da “mamme e papà” e non pupattole e veline stile Barbie o altre lolite plastificate, questo problema non c’era perché la bambina (ma anche, più raramente, il bambino) non si identificava affato con la bambola, se mai “proiettava” sulla bambola (che proprio per questo era di solito il simulacro piuttosto “neutro” di un infante di pochi mesi o un neonato) il proprio immaginario, inventava caratteri, condizioni, ambienti e situazioni. La bambola non è il personaggio definito dal costruttore con cui la bambina deve identificarsi, ma uno strumento il “medium” attraverso cui esprime creativamente il suo mondo di sentimenti, desideri, paure, fantasie. La prima cosa indottrina e imprigiona, l’altra libera e fa crescere. Ricordo che talvolta facevo ammalare le mie bambole per inscenare situazioni difficili con corse all’ospedale, pericoli da evitare, nemici da sconfiggere, catastrofi naturali, ostacoli da superare, di solito eroicamente e con immancabile successo. Ricordo, di aver sottoposto a cure tipo bendaggi e ingessature le mie bambole: il tutto con materiale di recupero, pezzi di tela, di legno, pezzi di altri giochi. Dopo le cure le bambole guarivano. Io, imprigionata nei busti della mia scoliosi evolutiva di cui avrei dovuto continuare ad occuparmi a vita (e lo sapevo), volevo che le mie bambole guarissero ed ero contenta così, come qualsiasi madre che tanto è pronta ad accettare qualsiasi malattia dei suoi figli tanto desidera che siano il più possibile sani e forti. Ma la vogliamo smettere di tormentare i bambini, disabili e non, coi nostri pruriti politicamente corretti, con le nostre ipocrisie, con i nostri ideologismi? Da disabile di 65 anni, vi giuro che non se ne può più! I giochi devono permettere ai bambini di immaginare quello che vogliono. Nessuno impedisce a un bambino Down di immaginare la sua bambola Down, SE VUOLE, nessuno impedisce a una bambina in carrozzella di inventarsi, usando un camioncino o qualcosa con le rotelle, di mettere la bambola in carrozzella SE NE HA BISOGNO, nessuno impedisce a una bimba con apparecchio acustico di simulare un apparecchio con un pezzetto di filo plastificato, per la sua bambola SE LO DESIDERA. Questa infelice trovata invece non dà scampo ai disabili che si sentono sì riconosciuti ma, guarda caso, non come persone “anche” disabili, ma come esseri completamente e rigidamente identificati da se stessi e dagli altri col proprio specifico stigma. Basta! Piantatela!

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